Il processo di deregolamentazione: lavoro flessibile o precario?
Innumerevoli sono le spinte in senso neoliberale che hanno riguardato la trasformazione del lavoro da rigido a flessibile. A partire dagli anni Ottanta, sono state concomitanti e rafforzate dalla crisi delle forme di capitalismo organizzato, crisi collegata a molti fattori, tra cui l’apertura internazionale dei mercati e l’aumento della loro instabilità, i cambiamenti negli stili di consumo meno uniformati, l’ostilità alla parcellizzazione del lavoro in grandi fabbriche e le innovazioni tecnologiche per la produzione.
Il processo di deregolamentazione
In questo modo è iniziato il processo di riduzione della rigidità definito deregolamentazione, che si fondava sull’idea che vi fosse un eccesso di regolamentazione che impediva di affrontare al meglio i cambiamenti strutturali. La terziarizzazione del sistema produttivo, le ristrutturazioni industriali e i cambiamenti sociodemografici, come la partecipazione femminile al lavoro, l’invecchiamento della popolazione, hanno portato all’attuazione di modifiche del funzionamento del mercato del lavoro e delle tutele sociali. Dunque, le politiche del mercato del lavoro, che costituivano un importante meccanismo di protezione per i cittadini, sono state progressivamente adattate in senso neoliberale.
Un ragionamento parallelo alla flessibilità
Se nella fase fordista la società era organizzata sulla famiglia male breadwinner, con il marito lavoratore con contratto indeterminato e la moglie casalinga o occupata per brevi periodi lavorativi, allora il sistema produttivo poteva contare su una domanda interna in continua crescita, che non poneva esigenze di flessibilità. Questa configurazione portò a una definizione rigida del mercato del lavoro italiano. Tale rigidità viene spesso considerata esclusivamente in termini di restrizioni alla libertà delle imprese di licenziare, ossia di limitazioni e costi imposti alle imprese quando intendono modificare il volume di impiego della forza lavoro rispetto a ore giornaliere, giorni settimanali e settimane nell’anno.
Spinte neoliberali alla flessibilizzazione del lavoro
Tra le tappe più significative del processo di flessibilizzazione nell’ingresso nel mercato del lavoro vi sono state l’introduzione dei contratti di formazione lavoro (1983-1984) e l’attenuazione delle norme che limitavano il ricorso ai contratti a termine (1987). Mentre i primi erano pensati espressamente per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, i secondi riguardavano in generale tutta la forza lavoro.
Una fase cruciale è stata rappresentata dall’approvazione dal cosiddetto Pacchetto Treu (1997), che ha introdotto una serie di nuove forme contrattuali, liberalizzando la possibilità di ricorrere al lavoro a termine nelle sue varie forme. Poi, la successiva Legge Biagi (2003) ha aumentato la varietà di tipologie contrattuali per il lavoro flessibile e ha ridimensionato i costi per il ricorso a queste forme di lavoro.
Questa serie di riforme ha così allentato il vecchio schema dei contratti a tempo indeterminato, introducendo nuove forme di lavoro atipico, proprio in contrapposizione a quelle standard tipiche del periodo fordista. Queste si caratterizzano in generale per un più basso livello di protezione, spesso con salari più contenuti, certamente con meno costi per le imprese. La visione alla base di tali interventi è che gli oneri del costo della forza lavoro per il datore di lavoro siano dovuti alla maggiore protezione dei lavoratori.
Due successivi importanti interventi normativi nella regolazione del mercato del lavoro sono stati la Legge Fornero (2012) e la riforma nota come Jobs Act (2014), che hanno cercato di promuovere una struttura del mercato del lavoro che unisca flessibilità e sicurezza, la cosiddetta flexicurity, ispirata al modello di regolazione sociale danese. Fino all'ultimo decreto lavoro, che segue la stessa linea neoliberale verso la flessibilizzazione.
Una definizione bizzarra:
la flexicurity
Per quanto riguarda gli obiettivi da perseguire mediante la flexicurity, vi sono in primo piano: il lasciare alle imprese un’ampia libertà di licenziamento, ma fare in modo che per i lavoratori perdere il posto di lavoro, e anzi perderlo più volte, non si configuri come un passo all’interno della «trappola della precarietà», ossia nell’esclusione definitiva dal mercato del lavoro, né sia vissuto personalmente come fonte di angoscia; lo stabilizzare a un livello accettabile il reddito dei soggetti interessati, quelli che conoscono nell’anno uno o più periodi di disoccupazione; il dare continuità a profili di carriera che la successione di diversi posti di lavoro rende intermittenti.
La flessicurezza così intesa è, secondo Luciano Gallino in Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, uno scambio tra due probabilità: da un lato cresce la probabilità di perdere l’occupazione, mentre dall’altro aumenta quella di trovarne rapidamente un’altra. Per il lavoratore l’instabilità dell’occupazione è alta, ma si provvede a diminuirne l’insicurezza, definita come la situazione di una persona costretta a subire un’interruzione «durevole» tra un’occupazione e l’altra. Questa è una «definizione invero bizzarra». In questo senso, la precarietà diventa così una condizione strutturale, esistenziale e generalizzata.
Quindi, le recenti riforme non sono riuscite a contrastare gli effetti negativi del processo di flessibilizzazione e si sono ulteriormente diffusi contratti part-time, minori garanzie contrattuali e bassi salari. La divisione che caratterizzava il mercato del lavoro tra insider e outsider nello status di occupato si è così aggravata, e ora siamo di fronte a una doppia segmentazione non solo più tra dentro e fuori il mercato del lavoro, ma anche tra occupati con contratti garantiti a tempo indeterminato e occupati con posizioni deboli, occupazioni a termine e poche tutele.
Lavorare non basta
Basti pensare, specifica la sociologa Marianna Filandri in Lavorare non basta, che oggi l’occupazione non è più una condizione sufficiente non solo a non essere poveri, ma anche a essere stabilmente occupati, d’altronde spesso si pone la contrapposizione tra posizioni differenti nel mercato del lavoro in base all’età, con i giovani in percorsi di lavoro instabili e i lavoratori con maggiore anzianità in condizioni più tutelate. Nonostante, i contratti a tempo determinato riguardino l’intera popolazione dei lavoratori, si può comunque notare che i costi della flessibilizzazione pesino principalmente sugli outsider, che solitamente sono le nuove generazioni che si inseriscono nel mercato del lavoro.
Il lavoro flessibile si configura come una sorta di ingresso secondario e possibilmente transitorio nel mercato del lavoro standard, che comporta rischi crescenti di precarietà occupazionale, trappole di sottoccupazione e circoli viziosi tra disoccupazione e lavori intermittenti.
Possiamo affermare che la teoria del gocciolamento nella pratica non ha funzionato. Andrea Colamedici e Maura Gancitano in Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo, scrivono:
Deregolamentare il mercato e proporre sgravi fiscali agli strati più ricchi della popolazione avrebbe raggiunto a cascata, con i suoi effetti benefici, tutte le altre classi. Oggi possiamo dire che nulla di quanto supposto è accaduto; al contrario, le disuguaglianze economiche e sociali sono più ampie che mai, ed è sempre più difficile cambiare la propria condizione, salvo rare eccezioni.
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